Incominciamo col dire, parlando del Cinquecento, che bisognerebbe quasi contestare il termine di “Rinascimento”, considerato che la maggior parte della gente attribuisce a questa parola il significato di “rinascimento classico”, vale a dire di rinascita della cultura classica. È ovvio che da un punto di vista storico ciò non ha senso: non è possibile infatti far rinascere nulla che appartenga al passato. Già nei capitoli precedenti ci siamo soffermati su questo concetto ma intendiamo ripeterlo ancora perché convinti che non si insisterà mai abbastanza per metterne bene a fuoco il senso.
Abbiamo visto come già nel Basso Medioevo fosse incominciata a formarsi la consapevolezza, nell’uomo, del suo valore e della sua funzione nella storia; nel Quattrocento questa presa di coscienza arrivò a maturazione creando – tanto per fare un solo esempio – l’individualità dell’artista e la conseguente moltiplicazione degli stili. Ora il processo continua e si acutizza nel Cinquecento, secolo drammatico, caratterizzato da contrasti e da forti tensioni. La trasformazione dell’uomo e della civiltà, che era iniziata dopo il Mille e si era sviluppata nel Quattrocento, arriva nel Cinquecento a determinare le idee sulle quali si fonda la struttura culturale dell’Europa moderna.
Il XVI secolo è caratterizzato da riforme e da cambiamenti che mettono tutto in discussione, soprattutto le verità acquisite ed i metodi usati per arrivarvi: la Riforma Protestante di Lutero e di Calvino spinge l’uomo verso un rapporto diverso con Dio: più che considerare la religione come rivelazione di verità eterne ed immutabili egli si pone alla ricerca di Dio all’interno della propria coscienza; se l’uomo è misura della cose (come avevano sostenuto nel secolo precedente Marsilio Ficino e le sue dottrine neoplatoniche), specchio dell’universo creato da Dio, è nel suo intimo, nella sua anima, che vanno ricercati l’impronta e il messaggio del Creatore. Questa specie di sollevazione degli spiriti tra l’altro sortisce l’effetto immediato di costringere la Chiesa di Roma di riflettere sulla propria condotta e, in parte, anche a rivederla, ma soprattutto costituisce la base su cui si innesterà la spiritualità futura in relazione al problema della responsabilità individuale di fronte a Dio, il cui sviluppo verrà soltanto ritardato, ma non bloccato, dalla successiva Controriforma.
Per gli stessi motivi la scienza non è più vista come sapienza tramandata dall’autorità dell’antiche scritture, quindi immutabile e cristallizzata nella presunzione delle sue verità assolute, ma al contrario è considerata un problema sempre aperto, un campo di indagine in perenne movimento, così come in movimento e in trasformazione è la realtà dentro la quale la scienza investiga e ricerca.
La politica, strumento di gestione del potere, non deriva più da un carisma di origine trascendente, ma è la risultante di una lotta tra forze in cerca di un equilibrio di cui si mette in evidenza la contingenza, nell’accettazione sempre del principio fondamentale del divenire della realtà di cui anche la politica è emanazione dipendente. E dunque anche l’arte non può più essere considerata come contemplazione e rappresentazione statica del creato; anche essa, come la scienza, si esprime mediante una ricerca inquieta. Ricerca della sua stessa natura, dei suoi scopi del processo relativo al suo farsi, della funzione che svolge nell’evoluzione storica. Si sostiene infatti che la forma artistica non può essere vista come specchio della forma universale dal momento che anche quest’ultima è oggetto di indagine in quanto ignota. Si ritiene inoltre che non sia logico credere di rappresentare la realtà nella illusione di rappresentare l’ordine divino del Creato, perché Dio e la sua parola non sono rintracciabili nelle cose ma nell’intimo della coscienza, unica sede in cui l’uomo lotta con se stesso per giungere a conquistare la salvezza.
L’attenzione è sempre più rivolta all’agire dell’uomo, quindi al suo comportamento. Comportamento rispetto a Dio e all’obbligo di seguire la propria natura che è quello di indagare e di interrogare tutto. Anche l’arte, nel suo farsi, è ritenuta un modo di comportamento e quindi anche l’arte – sia dal punto di vista del contenuto che da quello del suo stesso realizzarsi – viene ritenuta un mezzo per giungere alla salvezza spirituale.
Questi sono il fervore e l’impegno che animano il Cinquecento, secolo nel quale si realizzano le esigenze di un’esaltazione umana in tutti i suoi aspetti. E allora come è possibile parlare di “rinascita della cultura classica ” sic et simpliciter, quasi che, in questa epoca non si avesse altra preoccupazione che quella di vagheggiare il ritorno a periodi aurei dopo aver “rispolverato” testi ed opere d’arte antichi.
Ci pare dunque che, per evitare di cadere in un grossolano errore di interpretazione storica, la nostra insistenza su questo punto appaia più che giustificata. Certo esiste una ragione che ha determinato questa convinzione ed essa va ricercata negli scritti di Giorgio Vasari, in particolare nelle “Vite” del 1550. Egli divide il secolo in due parti di cui la prima rappresenta il trionfo dello spirito classico e la seconda la decadenza.
Secondo il Vasari questa seconda fase è rappresentata da artisti che non riescono più a realizzare le grandi opere dei maestri ma che tuttavia ripetono la maniera del loro operare illudendosi di eguagliarli. Di qui il termine di “manierista” che, per il Vasari, è colui che imita l’arte, non già la natura. Perciò se l’artista ha perso interesse a spiegare la natura attraverso l’arte e si è rivolto al fare artistico nell’intento di chiarirne gli scopi ed i modi di realizzazione, esso sarà costantemente preoccupato di risolvere le difficoltà dell’arte per cercarne di nuove che dovrà ancora darsi pensiero di portare a soluzione.
Fin qui il pensiero del Vasari che, purtroppo, ha influenzato la storiografia e la critica successive le quali si sono mosse dentro lo schema di un secolo, ripetiamo, diviso in due momenti: l’uno grande, classico e l’altro minore, decadente, manierista. Noi sforziamoci invece, con sensibilità moderna e con una maggiore consapevolezza critica, di rivedere questo giudizio.
Il primo momento del secolo, quello dei grandi maestri per intenderci, non può essere definito “classico” e spieghiamo il perché. Che cosa è, in sostanza, il classicismo? È possesso e consapevolezza piena di una concezione unitaria del mondo. E vi pare di ritrovare questa posizione ideale in Leonardo, per il quale la natura non è verità posseduta, ma mistero profondo da sottoporre a continua investigazione? O vi pare di ritrovarla in Michelangelo, così lontano dalla concezione di un equilibrato rapporto tra uomo e Dio che egli concepisce, al contrario, come “disperata e tragica tensione”? Oppure in Tiziano, il quale trasferisce sull’opera d’arte le più vive e brucianti passioni?
Gli unici a dare l’illusione di una “compostezza classica” possono essere Bramante e Raffaello, entrambi morti agli inizi del secolo, il primo nel 1514 e il secondo nel 1520. Vediamo perché. Innanzitutto perché l’opera dei due artisti (ci riferiamo a quella romana) si sviluppa in stretto rapporto con la Curia nel momento in cui la Chiesa sente approssimarsi la crisi della Riforma e cerca prevenirla riaffermando il valore del dogma come verità, nell’illusione di mantenere l’unità della fede e della stessa struttura della Chiesa. In questa direzione va l’arte di Bramante e di Raffaello ed in questo senso si ha l’apparenza di cogliere una dimensione classica nelle loro opere. Perché sostanzialmente essi condividono l’ansia di consolidamento della fiducia nell’autorità e nell’identità fede-ragione.
Se però pensiamo che Bramante e Raffaello, nell’esprimersi in tal modo, altro non fanno che riflettere la precisa situazione storica nella quale vivono rispondendo, sia pure in modo conservatore, agli interrogativi inquietanti sollevati dalle problematiche religiose che si agitano nelle coscienze, ebbene dobbiamo convenire che quello loro è un “classicismo” relativo, in quanto non rispondente ad una concezione unitaria del mondo, dal momento che è la dimostrazione evidente dell’esistenza di una problematica lacerante alla quale essi stessi partecipano con la scelta di una trincea (quella conservatrice): e lottare su una trincea contro un’altra significa negare l’esistenza di un momento unitario, classico appunto.