L’Impressionismo è il nodo centrale da cui si dipana l’arte contemporanea. E’ da questo movimento che, nella seconda metà dell’Ottocento, nasce uno scossone epocale il quale mette in crisi un intero modo di concepire le arti visive ed apre spiragli nuovi sulla scena della modernità. Rispetto ai secoli precedenti si mette in discussione la funzione mimetica dell’arte (della pittura e della scultura in modo particolare) considerato anche che l’evoluzione tecnologica ha messo a disposizione uno strumento nuovo – la macchina fotografica – capace di raffigurare personaggi, oggetti, paesaggi, con più somiglianza ai dati reali, maggiore rapidità esecutiva e a costi inferiori.
La rappresentazione da fedele, a volte icastica, si fa approssimativa; alcuni valori ritenuti fondanti della pittura, almeno a partire del Quattrocento, come la prospettiva, sono ritenuti superati; il colore non è più steso in maniera omogenea all’interno di campiture nette ma mescolato sulla tavolozza e poi applicato a macchie talvolta parzialmente sovrapposte; i ritmi disegnativi e pittorici si velocizzano e le pennellate diventano svirgolate, attimali, veloci. È proprio la velocità – caratteristica della moderna vita urbana – che si traduce in valore e metodo di rappresentazione: tutto sembra correre, sotto il profilo socio-economico e tecnico? Ebbene, anche l’arte – nella fattispecie la pittura – si adegua introducendo nelle metodologie della rappresentazione il dinamismo esecutivo. Ne consegue che gli artisti non rappresentano tanto gli oggetti colti nei loro aspetti esteriormente definiti quanto le sensazioni – vogliamo dire meglio le impressioni per maggior consonanza con il nome del movimento che rappresenta le nuove istanze, cioè l’Impressionismo? – che da essi derivano per colpire la retina, il cervello ed infine lo spirito dei riguardanti. Grazie a queste innovazioni profonde, quasi palingenetiche rispetto ai tempi trascorsi, il secolo che le incarna, vale a dire il XIX, rappresenta un elemento di fondamentale importanza per capire il senso di quello che, in arte, è avvenuto nel centennio successivo fino a giungere ai nostri giorni. In questo senso appare evidente come la grande rivoluzione linguistica dell’Impressionismo, con la sua radicale rottura rispetto al passato, si ponga quale inizio di una era artistica nuova e cioè l’era della modernità. Perché, come ha scritto Mario De Micheli, “L’Ottocento europeo ha conosciuto una tendenza rivoluzionaria di fondo, attorno alla quale si sono organizzati il pensiero filosofico, politico, letterario, la produzione artistica e l’azione degli intellettuali”. All’interno di “questa tendenza rivoluzionaria di fondo”, il sistema linguistico delle varie espressioni creative si è distinto per particolare vivacità innovativa. In sostanza, come già detto, è venuto meno un certo modo di concepire l’arte (soprattutto quella mimetica) ed è stata profondamente cambiata la sua funzione: da rappresentazione ad interpretazione del reale.
Dunque l’Ottocento può essere analizzato ponendo l’Impressionismo come fulcro centrale del secolo (anche se nato nella seconda metà di esso), quasi uno spartiacque tra una situazione pre-impressionista, una impressionista ed una post-impressionista. Intanto va precisato come, nella prima metà del secolo, quindi prima che il movimento prendesse piede, due linee di fondo, in qualche modo contrapposte, si siano definite sul piano culturale ed artistico: da una parte l’indirizzo spiritualista (connesso, in qualche modo, con la sensibilità romantica che si era già delineata sul finire del secolo precedente, come aveva percepito Friedrich von Schlegel); dall’altra quello naturalista o realista, scaturito dal pensiero positivista, dall’interesse verso le scienze naturali e i loro metodi di verifica sperimentale, nonché dallo sviluppo delle istanze ideologiche socialiste. Tra le due linee se ne colloca una terza che tende ad esaltare le dimensioni mitiche del reale e a dare all’immagine visiva un taglio marcatamente idealistico.
Il primo indirizzo si invera nel Simbolismo come tentativo di dare forma all’invisibile, di trasformare in immagini l’imponderabilità dei sentimenti e di tutto ciò che l’anima capta dal mondo extraempirico, saltando a pie’ pari la via della razionalità. Tanto per esemplificare, i protagonisti di questa tendenza sono William Blake, Samuel Palmer, Johann Heinrich Füssli, Caspar David Friedrich, Pierre Puvis de Chavennes, Hans von Mareés, Arnold Böcklin, Gustave Moreau, i Pre-raffaelliti e via dicendo.
Il secondo, invece, è più affine ai temi concreti, compresi quelli della denuncia sociale. Tra i suoi esponenti più rappresentativi si annoverano John Sell Coman, John Constable, Joseph Mallard William Turner, Jean François Nillet, Jean-Baptiste-Camille Corot, Gustave Courbet, sul versante satirico Honoré Daumier e così via. La terza linea è invece rappresentata da Johan Christian Clausen Dahl, Jean-Louis-André-Théodore Géricault, Eugène Delacroix.
Poi, nel primo decennio successivo al giro di boa della metà del secolo, un gruppo di pittori incomincia ad incontrarsi all’Académie Suisse di Parigi. I loro nomi sono: Claude Monet, Camillo Pissarro, Jean-Baptiste-Armand Guillaumin, Paul Cézanne. Sono fortemente attratti dal naturalismo di Courbet e di Corot. A loro si uniscono ben presto altre figure di artisti come Eduard Manet, Edgar Degas, Pierre Renoir, Alfred Sisley, affiancati da intellettuali come Jaris Huysmans, Lyuis Duranty, Théodore Duret.
Desiderando dare un senso nuovo alla pittura (e all’arte in generale) essi decidono la fine della sua funzione mimetica, esercitata sin dalle origini. Alla “riproduzione fedele” della natura e delle cose pensa ora, lo ripetiamo, la macchina fotografica; al pittore spetta il compito di accentuare un valore che, sino a quel preciso momento, è rimasto soltanto sotteso alla rappresentazione realistica, vale a dire l’impressione che dagli oggetti promana e che viene captata a livello individuale. Intendendo per impressione ciò che l’occhio percepisce come insieme di colori che mutano col variare delle condizioni di luce.
Così nasce l’Impressionismo che deve il suo nome ad un dipinto di Monet del 1872 intitolato Impression. Soleil levant, esposto alla prima mostra del gruppo organizzata da Degas presso lo studio del fotografo Nadar nel 1874. Il quadro, nella nuova modalità stilistica, diventa una superficie pittorica che si pone come realtà a sé stante, diversa da quella naturale e la cui materia prima è il colore colto nella sua autonomia, legato esclusivamente all’emozione individuale che scaturisce dall’impressione che il pittore riceve dalle cose guardate. La pittura ha scoperto una strada nuova: non più copia (sia pure singolarmente interpretata) del reale, non più finzione fenomenica, ma ricerca di sensazioni che provengono da oltre l’apparente.
L’Impressionismo pittorico porta avanti la sua straordinaria attività di registrazione veloce e irripetibile del senso visivo delle cose, del trascorrere dell’istante e si orienta verso il frammentario e l’aperto preferendoli al definito e al concluso; così come il momento è privilegiato rispetto alla durata. Pertanto un dipinto impressionista rappresenta una visione mobile che coglie il reale nella sua mobilità. La rivoluzione linguistica, come detto all’inizio, è di incalcolabile importanza.
Lo sviluppo del movimento permane fino al 1886, quando si inizia a registrare un interiore processo di disgregazione. Da esso si staccano sostanzialmente due costole: quella dei Neo-impressionisti (più conosciuti come Pointellistes) i quali, con Georges-Pierre Seurat e con Paul Signac, sull’onda del diffondersi delle teorie ottiche e delle percezione cromatica di Michel Eugène Chevreul, Hermann Helmholtz e William Henry, rifiutano la mescolanza dei colori realizzata sulla tavolozza, preferendole quella ottica (affidata quindi al senso della vista) ottenuta per giustapposizione sistematica e unione dei toni, delle tinte e dei pigmenti puri; e a quella di artisti che, all’analisi percettiva impressionista, preferiscono quella interiore (come Vincent Van Gogh, Paul Gauguin, James Ensor, Edvard Munch); ed ancora di chi si indirizza verso una maggiore razionalità delle forme volendo disporre tutti i dati delle sensazioni sopra una griglia di logicità, come Paul Cézanne. Siamo in una condizione che viene definita post-impressionista.
Tutta l’Europa concorre a questo processo di straordinaria vitalità dell’Ottocento, anche se il vero e proprio centro di irradiazione è, senza alcun dubbio, Parigi, dopo che l’Italia ha consegnato alla Francia una leadership che aveva tenuto saldamente in pugno sin dai tempi di Duccio di Buoninsegna e di Cimabue e fino a Gianbattista Tiepolo, ovverosia dal Duecento al Settecento. Tuttavia la produzione artistico-visiva della penisola continua a difendersi egregiamente ed a sfornare eccellenze, soprattutto attraverso tre aree geografiche come la Lombardia, la Toscana e la Campania, nelle quali operano, con qualità e successo, rispettivamente la Scapigliatura, i Macchiaioli, la Scuola di Posillipo e tutti i loro derivati. E sarà bene che prima possibile la storiografia critica si assuma l’onere di ben indagare a fondo queste tendenze nazionali. Le quali – a causa del successo prepotente dell’Impressionismo e delle sue eredità che hanno legittimamente indirizzato l’attenzione mondiale verso la cultura visiva francese – sono state troppo frettolosamente emarginate con l’etichettatura di “fenomeni provinciali”. Tali certamente non sono (specialmente la produzione lombarda e quella toscana) e bisogna avere il coraggio di dirlo ad alta voce dando inizio anche ad una accurata opera di dimostrazione dell’assunto.