MARIO SETTA, IL VALORE DI UNA TESTIMONIANZA
Una grave perdita per l’Abruzzo la scomparsa dello storico e intellettuale peligno, amante della Libertà
di Goffredo Palmerini
L’AQUILA – Quasi una settimana di rispettoso silenzio per elaborare la commozione e meditare. Solo ora riesco ad esprimere qualche riflessione in ricordo di Mario Setta, scomparso il 25 marzo scorso a Sulmona, in ospedale, dov’era stato ricoverato per un intervento chirurgico. Un tempo di attesa necessario per riordinare i pensieri, scompigliati dal dolore per l’inattesa perdita di un amico vero, che consideravo come un fratello maggiore, sebbene nella rarità degli incontri e tuttavia nella frequenza delle nostre corrispondenze. Nella sua mitezza, nel rigore morale, nella sua franchezza e nella ricchezza interiore, che sfociava in una cultura rilevante e mai sussiegosa, ho trovato per anni rifugio e motivo di confronto. Ne ho stimato l’apertura al dialogo e la fecondità di grandi valori universali, che Mario declinava con la semplicità del suo tratto, con la sua modestia e il suo garbo, con la chiarezza evangelica del “sì sì, no no” senza indulgere a compromessi. Sabato, l’indomani della morte, un commosso omaggio civile hanno portato all’amico Mario le tante persone che l’hanno stimato ed amato. Davanti la casa funeraria dov’era custodita senza pompe la sua bara, coperta da un cuscino di fiori e con dinanzi poggiata una semplice croce di legno, Maria Rosaria La Morgia, presidente dell’associazione culturale “Il Sentiero della Libertà” lo ha commemorato, sottolineando il forte impegno sociale e culturale che Mario Setta ha con grande passione civile dedicato per tenere vivi e intatti i valori della Resistenza, della libertà e della democrazia.
“È da ieri, da che ho saputo che te ne eri andato – ha detto tra l’altro M. Rosaria La Morgia – non faccio che pensare a una data che avevi in mente e che avresti voluto ricordare per parlare di Sulmona, dell’Abruzzo e della sua gente, per parlare di Resistenza Umanitaria e di libertà, alla vigilia di questa nuova edizione del Sentiero della Libertà. La data è il 24 marzo, o meglio il 24 e il 25 marzo: il tempo della traversata della Maiella raccontato da Ciampi nel suo diario, quello che regalò a te e al gruppo di insegnanti e studenti del laboratorio di storia del Liceo Fermi alla fine degli anni ‘90. E, strana coincidenza, te ne sei andato proprio il 25 marzo. Fosti tu con le tue ricerche e la tua tenacia a riportare alla luce tante storie di aiuto, di solidarietà, di libertà e di scelta. Storie di donne e uomini semplici, che non ebbero paura di mettersi in gioco. E tu come loro, le scelte per la libertà le hai sempre fatte, rimettendoci e senza mai lamentarti. Sempre con l’entusiasmo e il sorriso di uomo buono, generoso, quale sei sempre stato. Hai regalato sapere e anche gioia, voglia di vivere, di andare avanti, di mettersi in cammino a chi ti è stato vicino. Durante il Sentiero della Libertà apparivi e scomparivi, ti confondevi tra i marciatori, rispondevi a chi ti faceva domande, parlavi a chi restando in silenzio ti interrogava con gli occhi. Raccontavi, narravi le “nostre” storie come le chiamavi e come facevi anche nelle aule scolastiche. Ti piaceva stare con i ragazzi e riuscivi sempre a coinvolgerli, a incuriosirli. Il Sentiero della Libertà ti appartiene, nel profondo. Quelle parole del presidente Ciampi, scritte su uno striscione, sono le tue parole, le nostre parole. La libertà è un’idea in cammino, lo dicevi e lo ripetevi. Come amavi ripetere un’altra frase: resistere è un verbo che si coniuga sempre al presente. E noi continueremo a camminare con te, a resistere e ad amare la libertà”.
Il feretro, con accanto la signora Franca Del Monaco, compagna premurosa ed amorevole di Mario, ha quindi mosso verso Fonte d’Amore, al Campo 78, luogo di detenzione dei prigionieri Alleati da dove, dopo l’8 settembre 1943, essi intrapresero il cammino verso la libertà, ricongiungendosi alle truppe Alleate, accompagnati dai volontari della Resistenza umanitaria tra le asperità della Maiella e oltre la linea Gustav, lungo quello che sarebbe diventato “Il Sentiero della Libertà” da Sulmona a Casoli. Per oltre quindici anni Mario Setta ha tenacemente lottato contro ostacoli d’ogni sorta e indolenze, per valorizzare e restaurare quei luoghi di sofferenza, perché diventassero un presidio della memoria, soprattutto per i giovani, perché quel campo diventasse per tutti luogo di conoscenza della nostra storia, segnata dalla Resistenza al nazifascismo, anche nella forma “umanitaria” così fortemente presente nel territorio peligno e in Abruzzo. Carlo Fonzi, presidente dell’Istituto abruzzese per la Storia della Resistenza e dell’Italia contemporanea, ha tenuto l’orazione funebre.
“Poche parole per ricordare un grande uomo. Prima di tutto – ha detto nel suo intervento il presidente Fonzi – desidero esprimere, a nome mio e dello IASRIC, la nostra vicinanza e la nostra sentita partecipazione al dolore di Franca, dei parenti e dei tanti cari amici di Mario, tra i quali ho l’onore di essere anch’io. Mario era davvero un amico. Ci eravamo visti lo scorso 8 novembre nella sala ipogea del Consiglio Regionale a L’Aquila, per il rinnovo del Comitato direttivo dell’Istituto Abruzzese per la Storia della Resistenza e dell’Italia Contemporanea, di cui era socio. La nostra era un’amicizia fatta di valori condivisi, di “schiettezza e concretezza”, che erano poi i suoi modi di affrontare qualunque questione, con tenacia, molte volte anche con testardaggine, pronto a difendere le proprie idee, ma sempre disponibile al confronto. Era venuto a conoscermi nel settembre 2005 al Liceo Fermi di Sulmona, qualche giorno dopo il mio arrivo come dirigente scolastico, per parlarmi della sua ricerca storica sui prigionieri del Campo 78 di Fonte d’Amore, avviata con i suoi alunni liceali prima del suo pensionamento, e della scoperta dei diari di Carlo Azeglio Ciampi, in cui raccontava la sua fuga da Scanno, dove si era rifugiato dopo l’armistizio, a Sulmona e, quindi, verso Casoli per raggiungere le Forze alleate che risalivano la nostra penisola per liberarla dall’invasione tedesca. Ne ebbi un’impressione estremamente positiva, tanto che credo di avergli detto che ero dispiaciuto di non poterlo avere tra i miei docenti.
Da questa sua esperienza didattica, condivisa con altri colleghi del Fermi, è nato “Il Sentiero della Libertà”, marcia internazionale che ogni anno, dalla prima edizione del 2000 inaugurata da Carlo Azeglio Ciampi appena eletto Presidente della Repubblica, porta centinaia di alunni, docenti e persone a ripercorre questo cammino, da Sulmona a Campo di Giove, alla Maiella con il Guado di Coccia, a Taranta Peligna sino a Casoli, dove è nata la Brigata Maiella. Questa è la grande eredità – haaggiunto Fonzi – che Mario lascia a Sulmona, alle comunità peligna e teatina, a tutti noi. Da questa idea sono nate l’associazione Freedom Trail – Il Sentiero della Libertà, che Mario ha coordinato per tantissimi anni, e le tante ed importanti pubblicazioni tra cui, anche per il valore evocativo del titolo, è opportuno citare “E si divisero il pane che non c’era”, in cui si parla, forse portandola per la prima volta all’attenzione degli storici nazionali, di quella che oggi è definita la “Resistenza umanitaria”, che si affianca a quella della bande partigiane e che ha contribuito in modo altrettanto rilevante a liberare l’Italia. Ancora molto altro si può dire di Mario. Era un uomo coerente, libero, non etichettabile – proprio perché mai “ingabbiato” dai “sistemi”, anche forti, incontrati nella sua vita – e sempre disponibile con gli altri. È stato un bravo educatore, un docente preparato e, soprattutto, uno storico attento ed un grande scrittore. La scrittura era una sua dote, una sua passione che metteva a disposizione di tutti E spesso abbiamo utilizzato questa sua bravura. Anzi era lui che si proponeva, comprendendo magari gli impegni degli altri, “tanto sono in pensione” diceva. Ciao Mario, ti vogliamo bene.”
Una vita movimentata e straordinaria, quella di Mario Setta. Era nato a Bussi sul Tirino (Pescara) il 19 novembre 1936. Aveva frequentato il Liceo e gli studi di Teologia a Bologna. Nel 1962, ordinato sacerdote, andò a svolgere attività pastorale a Roma, prete operaio tra gli operai, con i quali condivideva condizioni di vita, le ansie, i sacrifici, ma anche la profonda umanità delle classi umili. Fu un tempo ricco di esperienze e di conoscenza delle tematiche del lavoro, ma anche di impegno nella formazione che egli apprestava seguendo l’illuminante metodo didattico che don Lorenzo Milani aveva applicato alla scuola di Barbiana. Testimonianza coinvolgente di quel periodo di vita di Mario la si può trovare nel suo libro “Cristo ha le mani sporche”. Tornato nella terra d’Abruzzo, nel 1970, Mario fu parroco a Badia, un piccolo borgo nei pressi di Sulmona dov’è la splendida Abbazia celestiniana, a quel tempo adibita a carcere. Radicale interprete dei mutamenti che il Concilio Vaticano II aveva postulato, entrò presto in collisione con la gerarchia ecclesiastica quando decise di liberare i servizi sacramentali dagli appannaggi, rendendoli senza compenso alcuno. Ma questo era forse l’elemento più appariscente, ma non il principale. Perché oltre alle contraddizioni che egli metteva in luce rispetto all’autenticità del messaggio evangelico, ciò che più dava fastidio era la novità del suo approccio ai temi sociali, alle condizioni di emarginazione che denunciava, la sua adesione alle battaglie di emancipazione delle classi più umili, la lotta contro i privilegi, in un tempo contrassegnato dal conformismo sociale e politico. Ancor più destarono scandalo le sue posizioni rispetto a referendum sul divorzio e sull’aborto, laddove sosteneva la laicità dello Stato e le prerogative del Parlamento nella formazione delle leggi che, quando promulgate, da tutti avrebbero dovuto essere rispettate, senza interferenze da parte delle gerarchie della Chiesa. Che anzi egli richiamava all’autenticità della missione evangelica, alla difesa degli ultimi e degli emarginati. Insomma, un prete scomodo – insieme agli altri due sacerdoti peligni, Pasqualino Iannamorelli e Raffaele Garofalo – che per questa ragione venne sospeso dall’azione pastorale, con l’ultima Messa celebrata il 7 aprile 1979. Una situazione che non poteva reggere e che qualche anno dopo tracimò nella sospensione “a divinis”, nel 1982, quando Mario Setta accettò la candidatura come indipendente nella lista del Partito comunista al Comune di Sulmona, dove fu consigliere comunale per una consiliatura. Tutte vicende raccontate nel suo libro autobiografico “Il volto scoperto”.
Intanto, lasciato l’abito talare, c’era necessità del lavoro per sostentare la sua vita. Mario si era laureato in Sociologia e Filosofia, ma per poter concorrere all’insegnamento dovette attendere la riforma del Concordato tra Stato e Chiesa, portata a conclusione dal Governo Craxi nel 1984, per vedere rimossi i vincoli che glielo impedivano. Cosicché ha potuto insegnare Storia e Filosofia agli studenti del Liceo scientifico “Enrico Fermi” di Sulmona per molti anni, fino alla pensione. Là ha appassionato alla storia intere generazioni di studenti, insegnando e operando con i suoi allievi nella ricerca storica attraverso il Laboratorio di Storia, che egli dirigeva, curando la pubblicazione di numerosi volumi, quali “E si divisero il pane che non c’era, Il sentiero della libertà. Un libro della memoria con Carlo Azeglio Ciampi” (Laterza, 2003) e delle memorie tradotte di tanti ex prigionieri alleati del Campo 78 di Sulmona, come “Spaghetti e filo spinato” di John Esmond Fox, “Fuga da Sulmona” di Donald Jones, “La guerra in casa 1943-1944 – La Resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano” di William Simpson, “Linea di fuga 1943-1944” di Sam Derry, “Un pranzo di erbe” di John Verney. Nasceva inoltre la sua creatura “Il Sentiero della Libertà” e l’omonima Associazione “Freedom Trail – Il Sentiero della Libertà”, che ogni anno organizza in primavera la Marcia internazionale in tre giornate da Sulmona a Casoli. Storie di donne e uomini nell’Abruzzo della seconda guerra mondiale raccontate nel magnifico volume “Terra di libertà ”a cura di Maria Rosaria La Morgia e Mario Setta, edizioni Tracce-Fondazione Pescarabruzzo (2014).
C’è un altro episodio rocambolesco nella vita di Mario. Gli capitò il 9 maggio 1974, con l’evasione dal carcere di Badia di Horst Fantazzini. Fortunatamente finì senza spargimento di sangue. Lo raccontò Mario stesso in un lungo articolo che mi affidò – come molti altri suoi scritti – e che inviai ai miei contatti stampa in Italia e all’estero, con una grande accoglienza. “9 maggio 1974, un giorno memorabile. Non solo per me. È il giorno dell’evasione dal carcere di Sulmona di Horst Fantazzini. Verso le dieci del mattino, come al solito, mi reco all’Ufficio Postale per rilevare la posta. Ci sono alcune lettere di persone che mi scrivono esprimendo dissenso e contrarietà alle mie e nostre posizioni sul referendum per il divorzio. Qualcuna è alquanto offensiva e minatoria. Non ci bado. Torno a casa. Mi preparo a scrivere a macchina i programmi delle persone che devono sostenere gli esami di licenza media. Tra alcuni giorni scade il tempo di presentazione delle domande e dei relativi programmi. Mi metto a battere i tasti della macchina da scrivere. Comincio col programma di Italiano. Non ho ancora finito la prima pagina che sento dei passi. Qualcuno apre la porta della stanza che fa da biblioteca della casa parrocchiale. Ha in mano una pistola. Resto impietrito. Pronuncio, o meglio cerco di balbettare qualche parola: “Non mi ammazzare! La campagna elettorale è ormai finita. Non faccio del male a nessuno se sostengo il NO al referendum”. Sono certo che sia venuto per punirmi del mio NO al referendum che si terrà domenica prossima, 12 maggio. Oggi è giovedì. La campagna elettorale è ormai conclusa. A che servirebbe un omicidio? Ad un prete, in una casa parrocchiale? L’uomo, intanto si dirige verso la finestra, tenendo in mano la pistola. Osserva. La giornata è piovigginosa. Lo vedo vicino a me ed ho addirittura l’intenzione di colpirlo al braccio per sottrargli l’arma. Ma è solo un’idea fugace. Lui è piuttosto giovane, sulla trentina, giubbotto di pelle color marroncino. Mi ordina di spingere il tavolo contro la porta già chiusa e di sedermi, mentre lui resta in piedi con la pistola accanto alla mia testa. Parla con un certo affanno.
“Sono fuggito dal carcere. Ce l’ho fatta. Da questo carcere non c’era mai riuscito nessuno. Le guardie mi stanno già cercando. Potrebbero arrivare qui da un momento all’altro. Sta zitto e non fiatare”.
Restiamo in silenzio. Guardo la pistola, a destra del mio viso. È una pistola a tamburo, canna bianca e impugnatura marrone. Passano i minuti. Si sentono dei passi per le scale. Poi niente. L’evaso guarda il foglio sulla macchina da scrivere, con un certo interesse. Poi chiede:
“Chi sei? Cos’è questa casa?”
Rispondo:
“Sono un prete e questa è la casa parrocchiale”.
E lui:
“Un prete? In borghese? Una casa con queste scritte e questi poster? Cosa stai scrivendo? Ho sentito i battiti della macchina da scrivere e sono arrivato fin qui. Hai un’automobile per accompagnarmi nella fuga? Aspettavo, per l’ora fissata, la macchina davanti al carcere, ma non c’era. Sono saltato dalla finestra del corridoio che dà sulla strada. Quasi tre metri di altezza. Ora mi fa male una gamba. Per evitare che le guardie, dalle garitte sui muri di recinzione mi sparassero, sono corso qui. La porta era aperta e sono entrato, salendo le scale”.
“Sto scrivendo il programma di terza media per gli esami delle persone che vengono qui a scuola serale. Non ho l’automobile. Avevo una Fiat 500, ma ho dovuto darla allo sfasciacarrozze. Alcuni ragazzi, una sera, se ne sono impossessati e sono andati a sbattere contro un albero”.
Capisco di trovarmi di fronte ad un tipo particolare. Un detenuto intelligente e culturalmente interessato. Ha bisogno di parlare, di sfogarsi. Conosce molti libri. Dice di aver fatto un’altra evasione, a Fossano. C’era stata sparatoria, allora. Anche adesso avrebbe sparato, se qualche agente avesse tentato di ostacolargli la fuga. Ma tutto è andato liscio. Senza guai. Finora. Mi viene da pensare a Papillon. Ma anche a Jean Valjean. In questa casa parrocchiale, da quando ci sono io, altri ex detenuti sono rimasti qui, per qualche tempo, prima di tornare nei paesi d’origine, dopo aver scontato la pena. Un calabrese, condannato per omicidio, vi rimase una settimana. Veniva a scuola serale e commentavamo le pagine del romanzo di Victor Hugo, I Miserabili. Un breve passo del romanzo stava scritto a mano su un poster, attaccato alla porta. Ma l’evaso non era riuscito a leggerlo, per la fretta di entrare. Sono le parole che Victor Hugo pone sulla bocca del vescovo mons. Benvenuto Myriel, accogliendo l’ex-detenuto Jean Valjean: “Questa casa non è mia, ma di Gesù Cristo e la sua porta non domanda mai il nome a chi la varca, ma se ha un dolore. Che bisogno ho io di sapere il vostro nome? Prima ancora che me lo diceste, ne avevate già uno che io conoscevo… vi chiamate mio fratello”.
Tra me e il detenuto si instaura un colloquio pacato, sottovoce, fraterno. Mi dice che si chiama Horst Fantazzini, e che la stampa lo soprannomina “rapinatore gentile”, “rapinatore solitario”. Mi fa notare il busto ortopedico, un’ingessatura, e mi dice che proprio nell’ingessatura aveva tenuto nascosto la pistola. Parliamo dell’istituzione carceraria, dei suoi metodi antiquati e spersonalizzanti, della sua incapacità di realizzare le finalità previste dalla Carta Costituzionale. Ad un tratto, un rumore. Lo spostamento di reti metalliche. È la donna di servizio che si occupa della pulizia delle stanze dove dormono alcuni operai della FIAT. Dopo quel 9 maggio mai più operai avranno il coraggio di chiedere ospitalità nella casa parrocchiale! Avendo riconosciuto che si trattava della lavoratrice domestica, Francesca, una vedova di 55 anni con sei figli, la chiamo ad alta voce. Vedo girare la maniglia della porta e sposto leggermente il tavolo. La donna, vedendo l’uomo con la pistola, rimane allibita e si allontana in fretta giù per le scale. Constatando che non arriva nessuno, l’evaso mi chiede di trovargli un nascondiglio. Lo aiuto a salire sulla soffitta. Ma prima mi abbraccia, mi bacia, mi chiede di non tradirlo, vincolando la mia coscienza di prete e dichiarando che altrimenti avrebbe sparato o si sarebbe ammazzato.
Mario continua a raccontare per altre tre pagine questa avventura che l’ha segnato nel profondo. Subì insieme a Fantazzini anche il processo, imputato di “favoreggiamento”. Fu poi assolto con formula piena. L’articolo di cui parlo si apriva con questo interessante incipit.
“Lo statuto dei gabbiani” (ed. Milieu 2012) è il titolo d’un libro che raccoglie gli scritti e racconta la vita del famoso “bandito gentile” Horst Fantazzini, curato dalla compagna Patrizia Diamante con prefazione di Pino Cacucci. In realtà, neanche il titolo riesce a dare l’immagine dell’idea di libertà incarnata da Fantazzini. Forse, volendo parafrasare Rousseau, che nel “Contratto sociale” esordisce con l’affermazione “L’uomo è nato libero, ma dovunque è in catene”, Horst Fantazzini, paragonandosi al gabbiano, nega il concetto stesso di statuto, perché i gabbiani “sono nati per volare liberi e per loro non ci sono statuti, né leggi, né regolamenti”. In “Ormai è fatta!”, trasposto nell’omonimo film di Enzo Monteleone con Stefano Accorsi, mentre Horst Fantazzini sta raccontando dettagliatamente la sua evasione dal carcere di Fossano, cita Bernanos de “I grandi cimiteri sotto la luna”, la più lucida e tremenda denuncia contro la guerra civile spagnola. “Io credo inevitabile, in un mondo saturo di menzogna, la rivolta degli ultimi uomini liberi”, scriveva allora Bernanos. E Fantazzini ne riporta una frase lapidaria: “La minaccia peggiore per la libertà non consiste nel lasciarsela strappare – perché chi se l’è lasciata strappare può sempre riconquistarla – ma nel disimparare ad amarla e nel non capirla più”. Ma è lui stesso a sentirsi in colpa per quello che sta facendo: “Sì, c’è dell’egoismo in quanto sto facendo, ma se le circostanze me lo permetteranno, questo potrebbe anche essere il primo passo d’un cammino più lungo”. Quel cammino, allora immaginato, lo conduce da un carcere all’altro, da un’evasione all’altra: 34 anni da gulag. Come nei racconti della Kolyma di Salamov o le lettere dalle Solovki di Florenskij. Una voglia di libertà frustrata, repressa. Una personalità mai domata, quella di Fantazzini, fino all’ennesimo ed ultimo tentativo di rapina in banca, quel 19 dicembre 2001, in via Mascarella, a Bologna. E, tre giorni dopo, la morte per aneurisma aortico. A 62 anni.”
Come accennavo dianzi, Mario mi mandava i suoi scritti. Erano tutti d’una intensità e d’una profondità etica e culturale da capogiro. Molto spesso ero io stesso che gli proponevo di diffonderli attraverso la rete dei miei contatti stampa, conoscendo la sua discrezione e la sua modestia egli non lo avrebbe mai chiesto. Ed è così che una straordinaria fioritura di scritti è comparsa su decine di testate in Italia e su molte altre all’estero. Sarebbe il caso di raccoglierli, questi scritti, per farne una pubblicazione, e forse lo farò. Temi ricorrenti erano approfondimenti storici, filosofici, artistici, sociali, un ampio spettro di questioni trattate con spiccata competenza, esposte con chiarezza e con il dono d’una magnifica scrittura. L’ultimo contributo me lo aveva inviato il 6 marzo: “Dall’Abruzzo l’appello per la pace di Immanuel Kant e l’esempio di don Ottavio Colecchi”, questo il titolo. Qualche giorno prima il comunicato stampa sulla XX edizione della Marcia “Il Sentiero della Libertà”, con un programma diverso dalla tradizionale Marcia, per via del Covid, che peraltro ha impedito l’iniziativa negli ultimi due anni.
Vorrei infine solo annotare l’amore che Mario Setta nutriva per Pietro del Morrone, poi diventato papa Celestino V. Sul gesto della rinuncia alla tiara papale, sulle dimissioni del 13 dicembre 1294, Setta ha scritto pagine di forte significato dove egli ammira il coraggio profetico di Celestino nel distaccarsi dal potere, per tornare ad essere umile eremita, segnando la prelazione di un’Ecclesia spiritualis rispetto ad una Chiesa contaminata dal potere temporale. Lo stesso principio che in più occasioni ha portato Setta a sostenere l’esigenza per la Chiesa di uscire dal regime concordatario per recuperare fino in fondo, senza le convenienze del Concordato, la libertà di testimoniare in autenticità e distacco dagli interessi materiali il messaggio evangelico. Più volte è intervenuto sulla vita “rivoluzionaria” di Celestino V e sulla Perdonanza. Aveva tra l’altro scritto in un suo articolo su Celestino: “La vita di papa Celestino V era stata una vita pura, limpida, dedita completamente al bene del popolo. L’Alter Christus per eccellenza… D’altronde era evidente e noto a tutti l’interesse e il rapporto che fra’ Pietro aveva stabilito con la teoria di Gioacchino da Fiore (1130-1202), secondo cui l’età dello Spirito Santo, dopo quella del Padre e del Figlio, era imminente, e avrebbe apportato il predominio della libertà, della grazia, della Pace e l’avvento del “Papa Angelico, il successore di Pietro che si eleverà in sublimi altezze”, al quale “sarà data piena libertà per rinnovare la religione cristiana e per predicare il Verbo di Dio… la gente non sguainerà la spada contro i propri simili e nessuno si addestrerà alla battaglia”. Recentemente mi aveva anche impegnato in uno scritto a firme congiunte, del quale avevamo condiviso l’analisi – “Celestino V e Benedetto XVI, le dimissioni da Papa”, questo il titolo -, uscito su molte testate e che ho riportato nel mio ultimo libro “Mosaico di Voci”.
L’ultima annotazione sulla spiritualità di Mario Setta, che fondava sulla certezza di due capisaldi: l’Amore incondizionato e la sterminata Misericordia di Dio, da un lato; dall’altro la Libertà dell’uomo e della donna. Nel suo libro “Homo, elogio di Eva” Setta afferma che non è stato commesso alcun peccato originale, solo realizzato il primo impulso verso la conoscenza: “Con il gesto di Eva nasce la filosofia, l’amore per il sapere, Eva rappresenta la curiosità della scienza contro la passiva accettazione della fede, superare l’idea dogmatica del peccato originale ridarebbe alla missione di Cristo il suo valore profondo e autentico: l’esemplarità umana”. Con questa libertà interiore Mario Setta è vissuto, testimone del suo tempo. Non sono io certamente in grado di discernere in pieno il valore della sua testimonianza. Sono solo, umilmente, certo sull’onestà della sua continua ricerca, sulla sincerità della sua vicinanza all’uomo, suo prossimo, sull’autenticità dei valori morali che hanno indirizzato la sua esistenza, sulla trasparenza e sul disinteresse delle sue scelte, sulla libertà da ogni condizionamento di potere. Mario Setta, in coerenza con i propri princìpi, ha voluto un funerale “senza sacerdoti né turiboli”, solo una modesta croce di legno con indicato l’alfa e l’omega del suo cammino terreno, un’estrema sobrietà verso la sepoltura nel cimitero di Sulmona. L’Abruzzo perde un grande storico e intellettuale, un insigne testimone di valori universali.