L’AQUILA – Mi capitava da ragazzo, soprattutto al termine delle lezioni, mentre aspettavo la corriera che dall’Aquila mi avrebbe riportato al paese e faceva freddo, di sedermi al tavolo di un grande Caffè aquilano, uno di quei locali che avrebbe ricordato i Caffè parigini, se non fosse stato per una certa atmosfera provinciale che vi si respirava. Non lo dico certo per snobismo: io adoro la provincia italiana, con quella sonnolenza che attenua i colori delle passioni, non disdegna il calore umano e alimenta la riflessione pigra ma perseverante.
Mi capitava allora, mentre ripassavo una lezione o scrivevo degli appunti, di gettare uno sguardo ai vicini di tavolo e di porgere un orecchio alle loro conversazioni. Questo non succedeva perché fossi interessato ai fatti degli altri, ma solo perché credevo, e credo, che gli esseri umani siano, nonostante tutto, gli “animali” più interessanti che ci sia dato di incontrare. Ero altresì animato dalla voglia di verificare…sul campo che, al di là delle condizioni e delle convenzioni, siamo, come suol dirsi, tutti sulla stessa barca, nutriamo, in fondo all’anima, le stesse speranze, e condividiamo le stesse illusioni e paure.
Credo di aver imparato dall’esperienza che il gran teatro della vita è sempre più interessante e sorprendente del teatro dell’arte. Non avevo ancora letto di quel grande scrittore francese, George Bernanos (1888-1948), che scriveva nel tempo libero che gli lasciava la sua professione di ispettore assicurativo, e lo faceva durante i viaggi in treno, o seduto ai tavoli dei Caffè (anche lui). Anche lui di tanto in tanto sentiva il bisogno di staccare lo sguardo dal foglio e posarlo sul viso delle persone che gli stavano vicine. Lo faceva per non perdere il contatto con la realtà, e forse per ricordare a se stesso che la letteratura ha sempre per tema la vita e gli uomini in carne e ossa.
Ma veniamo al racconto.
C’era, vicino al mio tavolo, una donna anziana che, a giudicare dall’abbigliamento, sembrava venuta da uno dei nostri paesi. Parlava amabilmente con una ragazza che la chiamava “nonna”. La donna anziana mostrava ancora sul volto i segni di una bellezza che il tempo aveva scalfito ma non cancellato, quella bellezza ineffabile che brilla spesso nel viso delle donne italiane. La ragazza, moretta e minuta, aveva un viso grazioso e uno sguardo pieno d’istinto. S’indovinava, dalle loro parole, un affetto forte, e quella complicità che c’è solo tra nonni e nipoti.
La giovane accennava ai suoi problemi di adolescente, alle incomprensioni con i genitori e alle ristrettezze economiche della famiglia. La nonna l’ascoltava con molta pazienza, emettendo ogni tanto un sospiro, come a voler sottolineare che si calava nei suoi panni. Le ripeteva: “Figlia me’, ci vòle pacenzia…” (Figlia mia, ci vuole pazienza…).
Alla fine della conversazione, si alzarono. La nonna andò a pagare la consumazione e fece alla nipote il regalo di una banconota. Mentre uscivano sentii dire dalla donna anziana: “Io t’ho sempre voluto bene e sempre te ne vorrò. Tu lo sa’ che t’aiuterò sempre. Tu si’ brava co’ lla famiglia, me raccommanno, e la Madonna t’accompagna”.
Fuori, le vetrine dei negozi erano piene di addobbi natalizi. Si udiva in lontananza il suono delle zampogne (a quel tempo ancora si vedevano in giro), fiocchi di neve cominciavano a volteggiare nel cielo cupo. Nell’aria ovattata risuonavano le voci: “Auguri!”, “Buon Natale!”.
Nonna e nipote le vidi prendere la strada che conduce alla chiesa di San Bernardino. Le abbracciai con lo sguardo finché potei. La voce della nonna risuonò a lungo nelle mie orecchie (“La Madonna t’accompagna”…). Mentre sparivano alla mia vista, ebbi la sensazione, che mi accompagna tuttora, che camminassero ai bordi dell’infinito…